Dopo le avventure lungo il Rio San Juan, angolo del Nicaragua che non avevo visitato prima perché sentivo di volerlo esplorare senza la costrizione di una data di ritorno prefissata, posso dire di essere soddisfatto della mia conoscenza del Nicaragua: non che abbia visto tutto, ci sono ancora varie zone che meriterebbero, ma sento che per il momento può bastare e che i tempi sono maturi per … sconfinare.
Mi era già successo di lasciare il Paese verso sud, verso il Costa Rica, stavolta però il mio obiettivo è il nord. El Salvador. Guatemala. Chissà Belize, Messico … si deciderà in base all’istinto e al vento.
Il bus corre veloce lasciandomi rivedere i paesaggi conosciuti della strada che porta a Estelí, e poi a Pueblo Nuevo, ero già stato anche a Somoto, ma solo una volta per vedere il canyon. Passata la frontiera attraversiamo un centinaio di chilometri di desolato Honduras. Arrivati in Salvador puntiamo dritti verso la capitale, tre-quattro ore in cui dai finestrini cerco di fare un primo confronto fra El Salvador e Nicaragua.
A San Salvador sono ospite di Marianna ed Emiliano, due cooperanti italiani che avevo conosciuto nella loro precedente missione a Leon. Dietro loro suggerimenti e a volte accompagnamento mi introduco brevemente alla realtà salvadoregna. La capitale è più grande e più moderna di Managua. Farcita di centri commerciali e fast food in cui recuperare le ingenti rimesse che arrivano dai 2 milioni e mezzo di salvadoregni negli Stati Uniti.
Le rimesse arrivano dagli USA ai parenti in Salvador che spendono poi i soldi nei centri commerciali a preponderante capitale USA, di modo che, nulla si crea, nulla si distrugge, i dollari tornano a casa a stretto giro di posta.
San Salvador è al centro di un Paese non molto grande: è una perfetta base per escursioni di un giorno o due e rientro. Come un passo a stella nella pallacanestro.
Un giorno vado a Suchitoto, un paesino coloniale nelle montagne a nord di San Salvador. Tutta questa zona è stata campo di battaglia e oggetto di repressioni durissime da parte dell’esercito nella guerra civile degli anni ottanta.
Passo la giornata tranquillamente poi vado a prendere il bus. Convinto che tutti i bus abbiano come destino finale San Salvador prendo il primo che riparte dal capolinea dove ero arrivato la mattina. Né l’autista né l’assistente mi dicono niente: avrebbero potuto facilmente immaginare che ero un turista.
Al momento di pagare la corsa scopro che il bus non va verso la capitale. Scendo. Di nuovo, come scoprirò dopo, l’assistente non è molto solerte, perché non mi spiega che devo tornare a Suchitoto.
Mi siedo su un sasso ad aspettare che passi un altro bus. C’è un bar all’aperto di fronte. Quattro uomini che ammazzano il tempo. Prendo una bibita e spiego al barista la mia situazione. Il barista non si sbilancia.
Lui ed i suoi amici-clienti potrebbero benissimo essere degli ex-combattenti. Nel mio trip alimentato dal museo della memoria che ho appena visto nella cittadina, mi immagino che lui era il capo della squadriglia. E che io ai suoi occhi in fondo sono solo un gringo.
Torno al mio sasso. Dal quale vedo il bar sull’altro lato della strada. Rialzato rispetto alla carreggiata. Qualche metro più in là sul muro che delimita la via una scritta enorme, lunga una quindicina di metri, inneggia a un collettivo, a una fazione, a un gruppo militare, in qualche modo fa capire che questa è una zona presidiata, difesa dal popolo. Non è solo il ricordo di un passato ancora troppo vicino, è presente.
Emiliano mi spiegava come nelle zone del Paese dove era stata più forte la guerriglia, dove vi era maggior unità del tessuto sociale, le maras (gruppi delinquenziali di stampo mafioso che infestano il Paese), non attecchiscono.
Si ferma un camioncino che inizia a strombazzare, gli occupanti chiamano a gran voce e fanno battute a quelli del bar, che ben presto arrivano e si sistemano in piedi nel cassone. L’ultimo a giungere è il barista. Quando mi vede mi invita ad andare con loro: mi lasceranno in un punto dove potrò prendere un bus per San Salvador.
Il gruppo di uomini sembra gioviale, ma non sono molto comunicativi nei miei confronti. Per rompere il ghiaccio chiedo al mio ospite “… e dove andate?”.
“A messa” mi risponde. E poi ride. Evidentemente non ha intenzione di dirmi dove vanno. Continuo le elucubrazioni su chi saranno questi uomini, dove andranno. Come sarà stata la loro vita negli anni ’80. E dopo, quando con la pace non sono arrivati i progressi sociali per i quali si erano battuti. Come si sentono adesso? Nel frattempo mi godo il vento che mi sbatte sulla faccia.
Mi lasciano a un incrocio e mi indicano dove posso aspettare il bus. Sta per imbrunire. Non ho assolutamente idea di dove mi trovi in realtà. Ma il bus dopo un po’ arriva e posso rientrare in città. A un orario ancora non eccessivamente pericoloso.
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